Ma è vero che “Piccolo non è più bello”? Forse no, ma il business model va cambiato. Ecco perché

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È aperto il dibattito.

Manager, imprenditori, docenti universitari, consulenti internazionali stanno martellando i lettori di quotidiani, riviste, inserti di economia, ecc. con il mantra “grande è bello e piccolo non lo è più”. Dipende!

Il loro messaggio è rivolto nella maggior parte dei casi al capitalismo familiare italiano delle PMI, dove è noto che il nanismo aziendale regna sovrano. Noi crediamo che occorra rispettare, entro certi limiti, la scelta di questi imprenditori: hanno messo molti dei loro risparmi, hanno reinvestito sempre gli utili lasciandoli in azienda, lavorano giorno e (spesso) anche la notte e, se 20 o 25 anni fa hanno avuto successo sudando “lacrime e sangue”, dobbiamo dare loro atto che se vogliono proseguire a fare quello che da sempre hanno fatto (cioè decidere tutto loro)  è nel loro pieno diritto. Però devono essere molto consapevoli che questa loro scelta, questa loro strategia è debole e ricca di rischi elevati, incombenti e irreversibili. Vediamoli in estrema sintesi.

Innanzitutto la loro avanzata età (veneranda, direbbe qualcuno). Parliamo di capi azienda dai 70/75 anni in su, un’età limite e forse proibitiva per impegnativi progetti di sviluppo e innovazione che richiedono un arco temporale minimo di realizzazione almeno di 10/15 anni! Tanto quanto è la loro speranza di vita secondo gli attuari. Hanno una sola chance strategica da adottare: mantenere lo status quo, sopravvivere, tirare innanzi! Una seconda strada è quella di aprire/alimentare (anche se involontariamente) una crisi permanente dove fatturato, e risorse finanziarie, qualità del management hanno modesti se non nulli gradi di crescita.

Se poi aggiungiamo una profonda impreparazione nella gestione delle risorse umane e della tecnologia (in tutte le sue attuali e moderne declinazioni), non possiamo che concludere come Luigi XV, che rivolgendosi alla sua favorita Madame de Pompadour, esclamò “après moi le déluge”.

Questi vegliardi, imperituri imprenditori che si ritengono, a torto o a ragione, immortali non riescono quasi mai ad avere un passaggio generazionale di successo. O perché a 80 anni sono ancora sulla tolda della nave con i gradi di comandante e l’erede quasi sessantenne lavora ancora sotto tutela come fosse uno sbarbato ventenne o perché si sono accorti, ma non lo esplicitano o non lo ammettono, di aver adottato, complice la moglie quale classica mamma chioccia italiana, un modello educativo fallimentare fin dai tempi in cui i loro figli andavano alla scuola dell’obbligo. Si trovano così dei “rammolliti”, come li ha chiamati recentemente un imprenditore ottantenne nostro associato, che però, diciamo noi, non hanno colpa alcuna! Sono stati allevati così: nella bambagia, senza mai sapere cosa fossero i sacrifici, il duro lavoro, il desiderio di emergere socialmente, le rinunce, le vacanze non fatte e non godute. Avevano già tutto: senz’altro più del necessario con tanti, tantissimi soldi in tasca. Avevano la grande opportunità di entrare nell’azienda di famiglia con un lauto stipendio, una fiammante automobile aziendale dell’ultimo modello e un “titolo organizzativo” senz’altro eccessivo per la loro esperienza, cultura d’impresa, preparazione manageriale. Per fortuna non tutte le famiglie imprenditoriali italiane sono fatte così!

Il problema però rimane: come possono questi arzilli vecchietti lasciare l’azienda nelle mani di un erede all’altezza del compito? Molti di loro ci hanno risposto: “meglio senz’altro vendere allo straniero o al concorrente e pazienza se perdiamo così il nostro know how, la nostra reputazione, il nostro brand” e noi aggiungiamo: e tanto altro capitale intangibile!  E attenzione cari “Rich Boys” (o Rich Kids): il tesoretto di papà è uno solo e lo potete usare “one shot”, poi se finisce sono problemi amari, anzi amarissimi.

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